Gli animali selvatici possono infettarsi con gli stessi batteri che causano malattie negli uomini e possono a loro volta essere fonte di contagio più o meno indiretto per gli umani. Ma quanto è frequente che i batteri isolati negli animali selvatici siano resistenti agli antibiotici?
Un gruppo di veterinari, compresi anche ricercatori italiani, ha condotto una revisione sistematica che ha raccolto tutti gli studi pubblicati in letteratura scientifica che riportavano dati sulla presenza di batteri, e in particolare modo degli enterobatteri, negli animali selvatici.
Gli animali più spesso studiati
Il maggior numero di studi presenti in letteratura riguardava proprio ricerche condotte su animali selvatici in Italia (20 studi sui 139 trovati) a dimostrazione che il nostro Paese è all’avanguardia sotto questo aspetto.
Gli animali che più spesso erano studiati, con il ricorso a loro campioni biologici per isolare e caratterizzare i batteri, erano in ordine di frequenza i cinghiali, i cervi, i conigli selvatici, i caprioli, le volpi e le faine.
I risultati dello studio
La maggior parte dei dati provengono da Paesi europei e mostrano che i batteri più spesso ritrovati negli animali selvatici erano Escherichia coli, Salmonelle e Campylobacter, e che in diversi casi i germi isolati erano resistenti agli antibiotici, non solo quelli comuni ma anche quelli che l’OMS consiglia di usare solo in caso di infezioni più gravi, causate da germi multiresistenti agli altri antibiotici. I tassi più alti di resistenza agli antibiotici sono stati rilevati nei carnivori selvatici di Africa e Asia.